Eritrea 2008

eritrea isole

Sull’armadio delle stoffe pesanti c’è la foto del suo unico viaggio in Italia: Roma 1960, Abebe Bikila vince loro nella maratona con i colori dellEtiopia e il connazionale Giovanni Mazzola (Jovani Mazola quando i suoi amici lo scrivono distrattamente) è uno di quelli in primo piano che lo sta portando in trionfo. “Io facevo parte della selezione di ciclismo, ma non andammo a medaglia”. Cinquant’anni dopo Mazzola cesella tessuti in Denkel street, cuore di Asmara che nel frattempo è diventata la capitale dell’Eritrea, indipendente dal 1993 dopo due guerre scriteriate.

Eritrea

Cominciamo da qui, allora, dal tracollo della prima colonia dove gli italiani sbarcarono nel 1865 (Assab), insediandosi definitivamente a Massaua trentanni più tardi e trasferendo solo ai primi del Novecento la capitale ad Asmara. L’Eritrea oggi è un rottame d’Italia dove sopravvivono lasagne e amarcord e cappuccino, certo, e i tombini con la scritta Municipio e i bus riciclati e un arcipelago di paradisi inaccessibili, ma quattro milioni di abitanti sono in balìa d’un dittatore – l’ex eroe della resistenza Isaias Afewerki – e se non ci fosse qualche rimessa dall’estero sarebbero già morti di fame. Quattrocentomila uomini e donne fra i 18 e i 35 anni (un decimo della popolazione) sono sequestrati dalla leva obbligatoria, fantasmi ammassati nelle tende senza luce dei campi al confine con l’Etiopia e incapaci, una volta tornati a casa, di reinserisri in qualche modo nel gi malandato tessuto sociale. Finiscono la scuola (talvolta proprio la scuola italiana, che qui ha 1200 studenti dalle elementari alle superiori e una rotazione annuale di cento insegnanti, ancora pagati dal nostro ministero degli Esteri) e li spediscono a vivere come animali. Quando tornano hanno disimparato tutto, nemmeno sanno più stare in mezzo alla gente e l’unica salvezza è la fuga, in un perverso cortocircuito del destino che muove i barconi verso Lampedusa e il paese dal quale erano stati colonizzati.
Giovanni Mazzola è il figlio di Salvatore, un palermitano del genio civile che arrivò in Africa orientale nel 1935, e di Demechese Gheremeskel, la donna che s’è vista abbandonare alla fine della Seconda guerra dopo aver fatto sette figli: “Le avevano lasciato il mestiere di sarta, ci è bastato per andare avanti”. Giovanni era un campione di ciclismo, che qui è rimasto una specie di sport nazionale e in Italia è stato una volta soltanto, Roma 1960 appunto: “Chiesi ai carabinieri di poter cercare mio padre, mi dissero che non era cosa. Ma io volevo solo salutarlo, non lo avrei accusato”. A 150 metri dal suo negozio c’è il cinema “Impero”, di fianco il caffè “Moderna” e poi la cattedrale cattolica costruita “grazie al generoso oblatore Benito Mussolini”; a tre chilometri in linea daria s’intravede invece lo stabilimento Fiat con le saracinesche sbarrate, perché in Eritrea non si produce più nulla. Gli stipendi dei fortunati che strappano un impiego in qualche meandro dell’opprimente burocrazia non superano gli 800 nakfa al mese, traducibili in 35-40 euro. Il problema è che non tutti i prezzi sono da paese sottosviluppato: un chilo di carne costa 100 nakfa, un rotolo di carta igienica vale oro: 20. Fatti due conti è come se in Italia, con le nostre retribuzioni, un pieno si pagasse mille euro o un chilo di pasta 120. Perciò si vive di riciclo e gli oggetti di latta, pelle, ferro, legno finiscono tutti al mercato Medheber, il vecchio caravanserraglio dove spuntano motrici Iveco anni ’60 e le cose rinascono una, due, dieci volte. Il Medheber è una città nella città dove s’affannano almeno cinquemila persone fra fonderie improvvisate, polvere di ferro, odore di berberé e poi le radio che gracchiano musica italiana anni ’70 o i bambini che usano la fiamma ossidrica prima di andare a scuola. “Questa – scherza Tecle Garhi – è l’unica fabbrica che funziona in Eritrea”.

Garhi è un ex camionista di 67 anni e per una vita ha fatto la spola fra Massaua e Addis Abeba: guidava Fiat da 40 tonnellate che non si sa come riuscisse a trascinare sulle strade che s’arrampicano verso l’Etiopia, sbocco naturale dei commerci in seguito azzerati dalla guerra. Oggi si ferma tutto al valico di Adi Keyh, venti chilometri dal confine, dove i cartelli spiegano ai ragazzini che ci sono ancora mine anti-uomo seppellite nei campi, sospesi sulle rovine di civiltà millenarie o paesaggi che varrebbero miliardi se esistesse il turismo: le montagne dell’Amba Soira disegnano sull’orizzonte un corpo segnato da troppe cicatrici, come lo sono forse tutte queste terre, ed ecco lo stesso groppo alla gola si materializza salendo verso il Sudan. Superata Keren, il più musulmano degli insediamenti eritrei dove gli italiani furono massacrati nel ’44 dagli inglesi è oggi le donne bilene si nascondono dietro occhi troppo scuri e veli ricamati come opere d’arte, il governo blocca l’accesso alle strade e nessuno osa avvicinarsi anche se l’altopiano è un caleidoscopio di forme.

Una delle poche cose indovinate dal ministero – che ha sede nell’ex Casa del Fascio di Asmara e gestisce l’unico quotidiano in vendita per le strade, zeppo solo di propaganda – è lo slogan per descrivere la peculiarità del Paese: “Three sesasons in two hours”, tre stagioni in due ore. Ed è esattamente quello che succede scendendo verso la costa e la caldissima Massaua, lungo la strada che tracciarono gli italiani nel secolo scorso ed è più o meno rimasta la stessa: dai 2400 metri della capitale al livello del mare nello spazio di 110 chilometri, tagliando Ghinda dove i medici italiani si trasferiscono nella stagione della malaria, poi Dongollo dove i bimbi s’arrabattano nelle rovine arrugginite della “Fabbrica acqua termominerale Ali-Hasa”, Dogali e i sobborghi della stessa Massaua: ammassi di lamiera assediati dalla polvere, sotto un sole che le cuoce ad almeno 40 gradi deformando i volti.

eritrea Medheber

E però Massaua è la voglia di esserci con un nodo allo stomaco, patrimonio dell’umanità secondo l’Unesco ridotta a un deserto di speranze. Le dimore bianche retaggio della dominazione turca sono accartocciate su se stesse, la gente imprigionata in casa dall’afa perché i turisti non esistono più, e i ristoranti segnati sulle guide un anno dopo sono già chiusi. Bisogna aspettare il buio e un esercito di ombre si muove senza ordini ma perfetto, la rete sulle spalle dei mariti, i bambini a rimboccare le coperte, le donne che preparano il tè in attesa di dormire fuori e solo così puoi respirare. Le vite all’ultimo stadio nella città fantasma restano appiccicate allo sguardo come il caldo sulla pelle, e non vanno mai via nemmeno nei sogni. Solo la luce livida d’una micro-televisione calamita famiglie e zanzare, la dinamo intermittente di una bici fabbricata a Bologna chissà quanto tempo fa, imbianca una striscia di strada ma non si vede niente. L’insegna del “Golden Navy”, la balera un po’ equivoca messa su per alleviare qualche marittimo, balza agli occhi in mezzo al ricordo proiettato dallo scheletro del vecchio Banco d’Italia, edificio art-deco semidistrutto a due passi dal porto senza navi, che ormai fa soltanto venire i brividi. E poi il neon dell’hotel “Torino” è spento e sulla terrazza non fanno più le feste da ballo che negli anni d’oro calamitavano l’imperatore etiope Haile Selassié, nome vero Ras Tafari ovvero l’uomo da cui i Rasta hanno tratto ispirazione. Per i blitz da Addis Abeba (Etiopia ed Eritrea erano ancora una cosa sola) aveva scelto il palazzo d’un ras ottomano, sebbene qualcuno fosse stato più furbo di lui. L’imprenditore Luigi Melotti, quello che in Africa orientale ha importato la birra, si era fatto costruire una villa spettacolosa in fondo all’isola di Taulud, una delle due che costituiscono Massaua, l’orizzonte stretto fra il giardino e il mar Rosso. Il paradiso di Melotti – tramandato agli eredi che si vantavano d’aver ospitato Giulio Andreotti, Giancarlo Pajetta e Oriana Fallaci – non esiste più, gli sgherri del dittatore Isaias l’hanno raso al suolo nella primavera 2006 per fare un dispetto al primo segretario dell’ambasciata Ludovico Serra, che l’aveva visitata senza chiedere mille permessi: il diplomatico è finito in arresto per tre giorni e poi espulso, mentre la fabbrica della birra (che è stata nazionalizzata e si chiama “Asmara”) oggi è quasi sempre chiusa e una bottiglia al mercato nero costa un decimo dello stipendio medio. Serra non è stato l’unico, a finire nel mirino. Il vecchio Franco Parmesan, che ancora dopo la guerra gestiva l’appalto della nettezza urbana nella capitale ed era un ricco vero, si è visto piombare in casa – nel quartiere Tiravolo ovvero la zona residenziale della capitale – due soldati inviati direttamente dal capo dell’esercito: s’informavano sulla proprietà, il generale era molto interessato e gli è toccato fare la spola con l’Italia per difendere la villa dall’esproprio.

Eritrea keren negozio

L’Eritrea precipita nonostante il mare che la divide dallo Yemen ospiti un paradiso: isole Dahlak, più belle forse delle Maldive ma (quasi) inavvicinabili. Ci sono solo due barche a pagamento, ma non vanno quasi mai, non c’è nafta. Gli indigeni che popolano i villaggi sugli isolotti cerchiati da mille sfumature d’azzurro qualche volta muoiono di febbre, e supplicano chiunque attracchi di recuperare medicine: Non basterebbero i commerci d’una vita – raccontano le donne che passano gli anni a intrecciare perline – a pagare un solo viaggio sulla terraferma. E l’imprenditore italo-eritreo Giovanni Primo si dispera, visto che i cantieri aperti per costruire un resort da depliant occidentale sono bloccati: il precipizio nel quale corre il paese e l’isolamento totale voluto da Isaias, che ha come migliore amico il sudanese al-Bashir inseguito dallOnu e apre e chiude le Dahlak quando ne ha voglia, spesso trasformano gli affari in un bagno di sangue. Tecle Garhi, quello che faceva l’autista e oggi si è reinventato guida o guardiano per campare, guarda sempre i ragazzi di trenta o quaran’tanni più giovani: ciondolano tutto il giorno, in una nazione che qualche volta nemmeno finisce sulle cartine ed è piena di contadini ghettizzati in esistenze pre-moderne. Lui parla sempre in italiano, anzi dice d’essere mezzo italiano com’era tutto il suo camion. “Non ci sono mai stato, però”. E vista da lì, sembra persino un miraggio.

Testo di Matteo Indice, foto di Astrid Fornetti.

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